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5° anno

COME SI DIFENDE UN ALBERO?

Pensiamo agli alberi come ad esseri viventi.

Sono i più grandi esseri viventi che popolano il nostro pianeta.

Sono anche i più longevi.

E sono pure i più antichi, poichè contano su circa 350 milioni di anni di evoluzione.

Possiamo credere che esseri con queste credenziali non abbiano sviluppato sistemi attivi di difesa contro le avversità? Possiamo immaginarli come semplici pezzi di legno piantati nel prato incapaci di reagire ai malanni della vita?

L'albero lega indissolubilmente il suo destino al luogo in cui mette radici: se gli piomba addosso una frana, un'alluvione o una città, non può fuggire. Deve sopportare, o perire.

 Eppure, se pratichiamo una lesione su un albero, questa rimarrà per sempre impressa nel suo legno.

Gli alberi non riparano le ferite, come gli animali.

Se mi sbuccio un ginocchio ci vorrà poco tempo perchè la cute lesionata venga sostituita con un nuovo tessuto identico a quello di prima. Se sbuccio un albero, anche solo una piccolissima interruzione della sua corteccia, ho creato un danno permanente: il tessuto lesionato sarà perduto per sempre, e preda in breve tempo di funghi ed ogni altro insetto lignivoro.

Qualcosa però frena, fino ad arrestare completamente, l'avanzata dei patogeni verso l'interno dell'albero; l'albero cioè è in grado di isolare il tessuto lesionato in un'area confinata, preservando i tessuti sani e vitali. Questo processo, detto di compartimentazione, è stato individuato da un famoso studioso americano attorno agli anni '70: Alex Shigo.

Shigo, purtroppo scomparso qualche anno fa, ha segnato una svolta fondamentale nel mondo dell'arboricoltura. Il suo nome, e le sue scoperte, dovrebbero essere note a chiunque si occupi di alberi.

Quest'uomo ha dedicato la vita intera a piantare alberi, ferirli e lesionarli con fantasia e molteplicità di mezzi, ed infine, dopo molti anni, ad abbatterli e sezionarli pezzo per pezzo, per scoprire cos'era successo nel frattempo. Ha scavato nei meandri e nei segreti dei tessuti di alberi secolari caduti, ha aperto cavità, esplorato marcescenze, viaggiato avanti e indietro nel tempo degli alberi,  osservato funghi ed insetti. In altre parole si è lasciato assorbire dal legno, come fa una goccia d'acqua su un foglio di carta, per esserci dentro e capire.

CODIT si chiama la teoria legata al suo nome. è un acronimo, e sta per Compartimentalization ODecay ITree, e cioè, tradotto in parlacomemangi: come l'albero isola la carie.

A fronte di una lesione dei suoi tessuti l'albero attiva 4 tipi diversi di barriere: le prime tre sono costituite da aggregati chimici, già depositati nel legno, con funzioni diciamo così antisettiche; e dalle pareti cellulari che costituiscono un ostacolo meccanico alla propagazione dell'infezione. Le prime tre barriere hanno la funzione di rallentare l'avanzata del marciume in senso longitudinale (su e giù per il fusto), in senso radiale (verso il centro del fusto) ed in senso tangenziale (cioè lateralmente attorno al fusto). Si parla di fusto per migliore comprensione, ma la stessa cosa avviene se la lesione è praticata su branche, rami e rametti.

In altre parole l'albero prende tempo: di quello lui dispone con abbondanza, e quindi quello impiega  a suo favore. Prende tempo per formare la quarta barriera, l'unica che effettivamente crea ex novo: le prime tre sono in gran parte già presenti come costituenti proprie dell'albero.

La barriera numero 4 è in effetti il prodigio dell'albero: si tratta di un tessuto in grado di bloccare l'avanzata dei patogeni, ed essendo un tessuto nuovo, si forma sullo strato più esterno del legno vivo: in pratica separerà per sempre tutto il legno del fusto  prodotto fino al momento della lesione dal legno nuovo che produrrà da quel momento in poi. Chi è dentro alla barriera è condannato, chi è fuori è isolato dall'infezione e salvo; le generazioni di legno futuro non potranno essere aggredite dal patogeno. Negli anni, al progressivo svuotamento del fusto per effetto dei patogeni, corrisponderà una progressiva crescita di legno sano verso l'esterno, che fornirà sostegno meccanico e funzionalità biologica all'albero.

E' una gara di tempo: l'albero sano oppone barriere efficaci che rubano tempo ai divoratori, ed intanto cresce veloce ingrossando i suoi diametri. L'albero deperito o stressato oppone barriere deboli e si ingrossa poco.

 La condizione degli alberi in ambiente urbano è spesso di debolezza, a causa dei danni che incessantemente subiscono (tra cui anche inutili o errate operazioni di potatura), e di conseguenza la loro capacità di reazione alle lesioni è fortemente rallentata.

Un luogo comune molto diffuso vuole che il legno degenerato all'interno della cavità di un albero sia lordura di cui doversi sbarazzare, per la salute e l'igiene dell'albero. La dendrochirurgia, cioè la chirurgia del di dendro dell'albero, effettuata mediante ripulitura delle cavità dalla sozzura del legno degenerato, era una pratica assai diffusa, eseguita a colpi di motosega, roncola, falce, badile ed ogni altro insensibile pezzo di ferro. Pensate che spasso per la barriera numero 4 che fonda la sua efficacia sulla continuitìà del suo tessuto! Roncolate e motosegate lacerano le difese dell'albero, aprendo la via verso quel legno nuovo e sano che l'albero aveva così tenacemente preservato.

La pulitura delle cavità è ancora oggi una pratica ampiamente diffusa, nonostante sia ben noto che gli alberi non riparano le ferite come gli animali, e che dunque la chirurgia non è roba per loro! Nè di fuori, nè di dendro!

Tra l'altro, a proposito della sozzura che infesta le cavità degli alberi: provate a trovare un terriccio più ricco e  più fertile di quello!

Occorre cautela prima di dare dello sozzone.

E cosa succede invece quando un ramo si spezza? Quando cioè un danno è prodotto non da una ferita, ma da una frattura? O da un taglio di potatura eseguito col senno dell'Orlando furioso?

Se la parte di ramo superstite ha sufficienti riserve energetiche, tenterà di ripristinare il fogliame perduto (la sua cucina, ricordate? Non può farne a meno!) mediante emissione di nuovi numerosi rami a partire da gemme in latenza. La ricrescita magari sarà frettolosa e disordinata,  ma comunque funzionale. Nel frattempo si attiveranno le barriere per arginare l'inevitabile penetrazione dei patogeni dalla ferita.

Se invece le riserve saranno insufficienti l'albero predisporrà l'abbandono del ramo:  mentre il moncone muore e si secca, nel punto in cui si inserisce nel ramo, nella branca o nel fusto da cui deriva, si attiva un meccanismo che isolerà i tessuti sani dall'ambiente esterno. Collare di compartimentazione, si chiama questa importantissima zona:  in ogni biforcazione di rami l'albero accumula saggiamente copiose riserve energetiche che gli consentiranno di formare una perfetta barriera contro la penetrazione di agenti esterni in caso di perdita del ramo.

Chi pratica operazioni di arboricoltura e potatura  dovrebbe essere a conoscenza dell'inviolabilità del collare di compartimentazione: lesionarlo significa vanificare gli sforzi dell'albero, e condannare i suoi tessuti sani all'aggressione dei patogeni; significa in altre parole trasformare la Muraglia Cinese in una linea Maginot.

Se osserviamo i tagli praticati nelle operazioni di potatura "casuali" comunemente ed ovunque effettuate, vediamo che l'esistenza del collare di compartimentazione è nota come quella dei marziani.

In effetti questi tagli, che travolgono brutalmente le barriere dell'albero, vengono spesso praticati di proposito per motivi estetici, perchè si ritiene che il "bitorzolo" (che altro non è che il collare di compartimentazione) stia male, sia brutto. Come tagliare un pezzettino del naso o dell'orecchio del nonno, perchè troppo abbondante: si sa, naso e orecchie, anche se di poco, crescono in concerto con l'età, e dunque via un pezzetto! Cosè albero e nonno ringiovaniscono pure un po', oltre ad essere più belli!

Non so se ho ecceduto col grassetto nello scrivere collare di compartimentazione, ma credo sia importante consolidare il concetto: importante per l'albero e per noi che ci stiamo sotto.

Il collare di compartimentazione c'è sempre, anche se quasi mai è così evidente come nelle foto sopra: rappresenta comunque un limite che nessuna sega deve valicare, il punto esatto in cui la natura ci dice fin dove si può spingere la nostra mano.

Il rispetto del collare di compartimentazione  consente all'albero di isolare rapidamente la lesione prodotta da un taglio di potatura, e quindi di limitare al massimo il danno derivante.

Il fenomeno della compartimentazione, ed i processi ad esso legati, che hanno richiesto oltre un decennio di studio da parte di Alex Shigo e dei suoi colleghi, rappresenta tuttavia solo uno degli aspetti più macroscopici dei metodi di difesa adottati dagli alberi. Macroscopico in quanto tutto il processo avviene alla luce del sole: opportunamente guidato, chiunque può osservare nelle sezioni di tronchi o rami affetti da lesioni il prodigio della barriera numero 4 e delle decolorazioni del legno a seguito di attacco fungino.

Ma gli alberi non si limitano solo a questo; fanno molto di più.

Ai fini delle operazioni di potatura, la conoscenza del CODIT e l'individuazione del collare di compartimentazione sui rami che si intende tagliare, sono passi imprescindibili ma sufficienti per non produrre danni eccessivi.

Il resto, tutto ciò che gli alberi fanno oltre a questo, serve unicamente per aumentare il nostro rispetto e la nostra ammirazione nei confronti di questi grandi organismi viventi; vale la pena parlarne per suscitare curiosità e stupore.

Gli alberi sono laboratori chimici di straordinaria complessità: producono una quantità enorme di sostanze, i cui esiti sono sorprendenti, e probabilmente in gran parte ignoti. Una veloce occhiata a questo argomento ci darà la misura di cos'altro sappiano produrre gli alberi oltre alla ben nota lignina, cellulosa, tannino, amido e quel poco altro che di loro sappiamo, mele e pere a parte.

Gli alberi producono numerosissimi Composti Organici Volatili (VOC) che vengono liberati nell'aria; per farne una semplice esperienza empirica basta mettere in funzione il naso. I profumi dei fiori sono forse la prima esperienza che viene in mente: sono molto vari e piacevoli, anche per il naso di molti insetti che, golosi di polline,  si  tuffano nel fiore attratti dagli intensi aromi, pasticciando ben bene prima di volare ad un fiore successivo. Sono gli insetti cosiddetti pronubi, come l'ape, il bombo e le farfalle, che ignari di tutto, volteggiando e svolazzando senza sosta, costituiscono un anello fondamentale nel connubio dei fiori. Non si dice forse ' convolare a nozze'?

Un altro buon esempio ci è dato dall'intenso profumo che ci accoglie quando entriamo in una pineta: ά -pinene si chiama il composto volatile responsabile del piacevole effetto balsamico di una pineta.

Un bosco di abeti ha un odore completamente diverso, anche se altrettanto benefico ed aromatico. Quell'odore che cogliamo nel massimo della sua fragranza quando per esempio, dopo un lungo viaggio per città e pianure, fermiamo finalmente la macchina e ci concediamo una sgranchita alle gambe, al cospetto delle grandi foreste dell'arco alpino. Il primo momento è inebriante, un intenso rimescolamento della nostra psiche olfattiva. (Non ho idea di come si chiami il composto, o l'insieme di composti, che determinano questo piacevolissimo profumo: non mi stupirei se si chiamasse β-abetame).

Altri tipi di bosco hanno altri odori, non così intensi, ma non di meno gradevoli. Ed occorre anche dire che la pioggia o l'umidità, come quando il bosco è immerso in una fitta nebbia, esaltano i profumi, allo stesso modo in cui gli oli esaltano le essenze.

Ancora VOC, composti volatili, sono quelli che caratterizzano i profumi dei legni: ogni legno ha il suo odore, il noce diverso dalla quercia, e tra le querce il cerro non profuma come la roverella o come il leccio; nè d'altra parte, per non far torti, il noce bianco profuma come il noce nero.

Anche in questo caso le piante resinose esprimono probabilmente le fragranze più intense: a parte abeti e pini, già citati, il cui odore è percepibile anche in un comunissimo pallet, non dobbiamo dimenticare piante come i cipressi (che piacciano o meno, bisogna riconoscere che il profumo del loro legno è intensissimo), o il tasso, o la douglasia, i cui aghi, se strofinati, emettono un forte aroma di limone.

Chiunque abbia a che fare per qualunque motivo con il legno, dal falegname, al boscaiolo, o anche chi semplicemente maneggia pezzi di legno per alimentare un camino o una stufa, sarà sicuramente in possesso di un ampio campionario di profumi, derivante da legni che, anche non volendo necessariamente attribuire a questa o a quella specie, si distinguono tra loro per peso, forma ed intreccio delle fibre,  nodosità e colore. E odore, appunto.

Questo bagaglio esperienziale olfattivo, che non rappresenta certo il primo degli strumenti a cui facciamo ricorso quando vogliamo riconoscere un albero, diventa invece protagonista assoluto nel richiamare alla memoria fatti o avvenimenti in cui l'odore di un luogo o di un oggetto ha silenziosamente impregnato i nostri ricordi.

Quando ero bambino, con la mia famiglia si andava in vacanza nelle Dolomiti. In Val Gardena, forse più che nelle altre valli ladine, era facile incontrare laboratori di intagliatori di legno: pazienti ed abili artigiani che con precisi e misurati colpi di sgolbia e scalpello estraevano dalle vene del legno ogni sorta di figura, spesso ispirata proprio dalle irregolarità e dalle bizzarrie del legno stesso. Il profumo in queste botteghe, che scaturiva da decine di statuette e manufatti appoggiati un po' ovunque e da migliaia di schegge che sprizzavano senza sosta sotto il colpo degli scalpelli come lapilli da un falò,  riproduceva, più intenso e concentrato, il medesimo profumo presente nell'aria, satura dell'essenza dei grandi boschi di conifere.

In  una visita ad uno di questi laboratori avevamo comperato due statuette in legno di cirmolo (identiche, per non scatenare liti con mia sorella) raffiguranti uno scoiattolo intento a rodere una nocciola; tenero, generoso ed aulente cirmolo! Negli undici mesi urbani che ci separavano dalle nostre splendide scorrerie alpine (l'intervallo che negli anni settanta era per lo più standard tra una vacanza e l'altra), era il profumo delle statuette a riportarci con straordinario trasporto emotivo a rivivere quei ricordi e quei luoghi che tanto amavamo.

Sensazioni che per altro, occorre dirlo, si riproponevano con eguale intensità quando, sotto Natale, l'albero addobbato spandeva per tutta la casa  il profumo di un bosco di abeti: nei pomeriggi di dicembre, silenziosi e precocemente bui, amavo sedermi davanti all'albero con gli occhi chiusi, per sentirmi, senza alcuna fatica, immerso in un vero bosco dolomitico, ai piedi di grandiosi contrafforti rocciosi a cui solo poco tempo dopo avrei consacrato gli anni da scavezzacollo di liceale incosciente.

Ma l'albero che rappresenta per me una vera droga olfattiva è il cedro: annuso intensamente, dilatando le narici come  un cavallo, i tagli freschi ed i trucioli di cedro. Quando lavoro su questi alberi porto sempre a casa delle sottili fette di legno, che poi mettiamo sopra il camino perchè il calore ne diffonda il profumo. Sui vestiti l'odore di cedro è persistente e ti resta attaccato addosso, più forte dell'aroma del caffè preso al bar.

Tempo fa portai in segheria il fusto di un deodara che avevo abbattuto, per farne tavole di dieci/dodici centimetri di spessore da lasciar stagionare. Alcuni anni dopo con una di queste tavole, ulteriormente segata in spessori più maneggevoli, ho fatto una serie di pensili ad uso libreria, curando che i nodi ed i difetti più arzigogolati del legno rimanessero bene in vista. Per molto tempo, entrando in casa, si veniva accolti dall'odore suadente ed avvolgente della libreria, e avvicinando il naso si avvertiva nettamente che i centri di questa prodigiosa emanazione erano proprio i nodi delle tavole.

Un'altra intensa esperienza dell'odore del cedro, la si può avere in una màdrasa in Marocco. La màdrasa è un luogo deputato all'insegnamento della dottrina coranica (ma non solo) e sono piuttosto numerose, soprattutto nelle città imperiali. Soprattutto, la maggior parte sono visitabili, indipendentemente dal passaporto e dalla fede che si abbraccia (o che non si abbraccia). Sono luoghi veramente particolari, dotati di quella stessa quiete che si vive nei chioschi dei nostri monasteri e delle nostre abbazie. Ad una màdrasa si accede varcando una porticina che separa come una cortina impenetrabile il fragore ed il caos ingovernabile del suk, fatto di migliaia di voci, clangori e tramestii, e di speziatissimi effluvi, dal silenzio irreale dell'interno, rotto soltanto dal gorgoglio di una fontanella posta al centro del patio. Un'oasi inattesa di pace e di silenzio, un luogo fresco; e profumato di cedro. Un luogo dove ristorare i pensieri ed inspirare profondamente l'essenza di un mondo diverso. Il profumo di cedro viene da elementi lignei decorativi che ornano con abbondanza le pareti e le volte dei colonnati. I pregevoli  intarsi sembrano quasi voler artificiosamente aumentare la superficie diirradiamento del legno, così da coinvolgere tutti isensidell'ospite: l'udito (per deprivazione, per mancanza brusca del clamore esterno); l'olfatto, con gli effluvi del cedro; la vista, mediante una complessa architettura; ed il gusto, attraverso il rumore dell'acqua, fresca come l'ombra dei porticati, che fa salire la saliva in bocca.

E poi gli alberi emettono anche una grande varietà di sostanze che i nostri sensi non percepiscono, in molti casi a scopo difensivo: per esempio, alberi stressati o  aggrediti da patogeni, reagiscono con alacre attività biochimica: tra le sostanze prodotte ve ne sono alcune volatili destinate ad allertare i propri simili, perchè possano adottare tempestivamente misure adeguate.

E' come se l'albero dicesse ai suoi vicini: a me è capitato addosso questo tipo di accidente, vedete un po' voi come siete in grado di prepararvi!

Alberi che stanno in prossimità di loro simili affetti da qualche patologia sviluppano composti chimici secondari come se fossero anch'essi aggrediti dallo stesso patogeno, anche se di fatto sono ancora perfettamente sani. è come una sorta di vaccinazione o di profilassi, che, se non potrà evitare il contagio, potrà almeno attenuarne gli effetti.

Un altro caso interessante è costituito dalla reazione che sviluppano alcuni alberi quando vengono aggrediti da insetti fitofagi (insetti che si nutrono di piante). Degli alberi è tutto buono e, come nel maiale, non si butta via niente: foglie, gemme, fiori, legno, corteccia, radici: tutte prelibatezze ognuna delle quali trova i suoi estimatori specifici. In alcuni casi gli alberi aggrediti da questi molestissimi insetti, producono composti chimici secondari volatili, destinati ad allertare altri insetti che stanno nei paraggi; questi altri insetti sono degli entomofagi, e dunque si nutrono di entomi (di insetti!). E guarda caso, il loro piatto preferito è proprio costituito dal molestissimo succhia-linfa che in quel momento sta appestando le foglie (o altri organi) dell'albero. Stimolato dai fitofagi, l'albero apre le finestre, lascia uscire un invitante profumino d'arrosto, ed invita tutti i passanti a pranzo.

Delle sorprendenti capacità chimiche degli alberi ne parla in maniera molto più circostanziata Nalini Nadkarni (vd. note bibliografiche), docente e ricercatrice americana che da decenni studia i processi biologici degli alberi e dei loro associati nelle foreste di tutto il mondo.

E qui occorre aprire una breve parentesi per esprimere osservazioni nate dalla lettura di un suo testo: Tra la terra e il cielo, la vita segreta degli alberi.

Questa signora, che pare avere una certa grinta e temperamento, conduce ricerche sulla volta delle foreste equatoriali, da postazioni di studio situate a 50, 60 ed anche più metri da terra, raggiungibili solo tramite tecniche alpinistiche di risalita su corda. La stessa cosa fa sulle cupole verdi delle grandi foreste di conifere americane (alberi alti fino a 80/100 metri), e un po' in giro dovunque il suo intuito e la sua curiosità la attiri. Lavora con pool di studiosi diversissimi per formazione e per indirizzo, perchè è l'interdisciplinarietà che produce i risultati migliori in campo scientifico; perchè non si può comprendere un ciclo se non lo si conosce per intero. Sulle volte delle foreste e dei boschi, indipendentemente che si tratti di sequoie alte 120 metri e più, o di castagni alti la stessa cifra ma senza lo zero, vive un mondo complesso come quello che vive alla base dei grandi fusti, che ignoriamo perchè la nostra natura ci ha legati alla terra e non all'aria.

Degli alberi conosciamo molto bene, per esperienze empiriche quotidiane, il tronco, non l'estesissimo apparato radicale: siamo uomini, non talpe. Conosciamo i cinghiali che razzolano nei boschi e le volpi che trovano tana sotto gli alberi, e molto meno la ghiandaia ed il gufo che popolano la volta arborea: siamo uomini, non uccelli. Tendiamo ad ignorare tutto ciò che non è alla portata della nostra mano.

In realtà la chioma delle foreste è a sua volta un mondo assai complesso, incoraggiato e gradito a  rami e branche degli alberi che pazientemente lo sostengono e che traggono a loro volta beneficio dalla presenza di alleati preziosi e vitali.

E così la Nadkarni si ritrova a lavorare, non importa in quale angolo del globo e a quale altezza sopra il globo, con entomologi, biologi, ornitologi, geologi, climatologi, etnobotanici, chimici, matematici e tutta la genia degli -ologi e -ici che l'accademia mette a disposizione.

Ma la cosa interessante è che fanno e studiano cose che apparentemente hanno dell'assurdo (e proprio per questo possono sfociare in scoperte sensazionali), ed ancora più interessante è che ottengono fondi per le loro costosissime ricerche sia di laboratorio che sul campo, parendo essere l'unico limite la fantasia e l'audacia che può soggiacere ad un'ipotesi di studio, e non certo lo sforzo economico destinato a sostenerla.

Ancora più commovente è la considerazione ed il rispetto di cui godono scienziati e ricercatori in certi paesi, avendo addirittura alle loro spalle un potente apparato politico ed amministrativo che spiana la via verso imprese extra nazionali.

Un po' come da noi, dove il ricercatore è quasi la categoria più presa a calci in culo nel mondo, ed il neolaureato il pivello da sbattere sul fondo di un polveroso archivio a costo zero perchè tirocinante e, finito il tirocinio, avanti il prossimo!

E sapete cosa sta facendo la Nadkarni, tra i tanti altri progetti di studio, da più di 25 anni? Va nelle foreste di mezzo mondo, sale su un certo numero di alberi, e con precisi telemetri ed altre ottiche laser rileva la distanza di ogni ramo degli alberi campione dagli ostacoli circostanti, rami, foglie o fusti o altro che si pari innanzi. Scopo? Insieme al solito pool di -ologi e -ici, creare una mappa tridimensionale del 'vuoto' esistente nelle foreste, perchè dalle ipotesi di studio sembrerebbe che l'organizzazione degli spazi vuoti potrà fornire informazioni non meno importanti che lo studio dei suoi spazi 'pieni', o che quantomeno il vuoto partecipi al pieno come qualunque altro elemento tangibile del cerchio vitale della foresta. E dunque va studiato. Bizzarro, no?

Periodicamente il pool si reca nuovamente nelle aree campione e ripete ogni misurazione precedentemente effettuata, ottenendo una sorta di mappa in negativo dei volumi della foresta, e delle loro evoluzioni.

Sono pagati per fare questo. Perchè la scienza non può ignorare nessuna strada e nessuna idea, e può dirsi soddisfatta anche nella scoperta di un vicolo cieco e di un'ipotesi errata.

Ma c'è pure dell'altro, di cui gli alberi sono protagonisti, che nasce da osservazioni ed ipotesi ancora vaghe ed appena timidamente accennate, e che potrebbero contribuire a dare del visionario e a far rinchiudere in manicomio colui che le propone.

Siamo su quel sottile confine tra ciò che la scienza dice e ciò che non osa dire.

Quella frontiera della conoscenza scientifica, dove cioè i dati acquisiti si arrestano bruscamente sul vuoto dell'ignoto, che lascia spazio alla fantasia, all'intuizione ed al caso, che sono probabilmente la spinta pioniera più potente verso la scoperta del nuovo e dell'inimmaginabile.

Il caso ha spesso guidato il progresso, basta pensare ai primi due esempi che mi vengono in mente: la penicillina, primo antibiotico nato dalla muffa accidentalmente sviluppatasi nelle provette di un distratto ricercatore; e la gomma degli pneumatici, generata da un incendio maldestro di una miscela di caucciù e zolfo, frettolosamente estinto a secchiate d'acqua fredda.

Ma anche l'intuito ha guidato il progresso: quel guizzo che balza nell'oscurità dell'ignoto, ed accende una luce. La genialità  rara di uomini e donne che hanno sospinto un pensiero anche quando non era sostenuto da alcuna evidenza scientifica o ragionevole dottrina. Uomini e donne che sono stati spesso infelici a causa dell'amore per la scienza, da Ipazia a Galileo, fino anche forse ai ricercatori e agli scienziati dei giorni nostri e dei nostri lidi, escrescenza del mondo del sapere, tollerata con sufficienza e foraggiata con scarso fieno.

Di questo si tratterebbe: quando si parla di formiche e si cita la loro leggendaria capacità di seguire le tracce chimiche che lasciano e con le quali si trasmettono dati relativi all'ambiente circostante (per esempio la distanza da una fonte di cibo, l'entità ecc.) nessuno ha difficoltà ad ammettere che si tratti di un linguaggio e di una comunicazione intenzionale, e dunque intelligente. Allo stesso modo le api bottinatrici, rientrando all'alveare, comunicano alle loro sorelle attraverso tipi di volo particolari la distanza, le dimensioni e la rotta per quel succulento campo di lavanda. Anche in questo caso viene riconosciuta una comunicazione intenzionale, e dunque intelligente, alle api.

Nei confronti degli organismi vegetali, tale intenzionalità non viene altrettanto facilmente riconosciuta e meno ancora una qualche sorta di intelligenza. Pensiamo anche solo alla riluttanza con la quale vengono ammessi al club degli esseri viventi!

Eppure, se non con il movimento, come le api che addirittura possono volare, almeno attraverso segnali chimici abbiamo visto che gli alberi si trasmettono informazioni ed interagiscono attivamente con gli esseri viventi del loro entourage. Non è comunicazione questa? E dunque non potrebbe lasciar intendere una qualche forma di intelligenza?

A questa domanda tenta di dare una risposta Giorgio Celli, in un altro libro assai intrigante dal titolo: Le piante non sono angeli; astuzie, sesso e inganni del mondo vegetale.

Giorgio Celli era un entomologo, studiava gli insetti. Ed un etologo, cioè uno che studia il comportamento degli animali. Con una sensibilità ed un'acutezza che gli consentivano tuttavia di spaziare in diversi campi con grande acume e con intuizioni e deduzioni degne di ammirazione. Soprattutto era capace di miscelare scienza e sentimento, ed il suo approccio al mondo naturale è sempre stato di quello che apprende con meraviglia e stupore sincero, riuscendo in seconda battuta a riversare l'intenso flusso delle sue osservazioni presso il grande pubblico che immagino lo seguisse dal piccolo schermo, o dalle pagine patinate delle riviste su cui scriveva, con l'attenzione ed il pathos di un bambino al primo spettacolo di burattini della sua vita.

A me, almeno, ha sempre fatto quell'effetto, e dal tubo catodico, o tra le righe dei suoi scritti, venivo trascinato in un vorticoso ed aggraziato balletto che immancabilmente volteggiava da un gatto ad un fiore, ad un insetto, un tubero, un chicco di mais, un seme, un pesce, un albero, l'usignolo che lo abita e l'ape che ci vola intorno. E tutto stava sempre in logica e naturale sequenza, come se appunto non si potesse parlare di formiche senza parlare del bosco che le ospita.

In questi balletti l'indiscutibile e vastissima preparazione accademica ammiccava sempre con discrezione da dietro le quinte lasciando la scena ad una narrazione spiritosa ed a volte pungente, ma sempre intrisa di emozioni e poesia, tanto da lasciarmi più volte con gli occhi inumiditi ed un indigesto groppo in gola, che per vergogna e timidezza cercavo di mascherare.

Giorgio Celli sapeva trovare quella leva che, infilata con perizia nel giusto punto dell'anima dei suoi spettatori, risvegliava un interesse sopito e poco esercitato verso la natura ed il mondo che ci circonda; mostrava con disarmante semplicità come potesse nascondersi un mondo straordinario anche tra le pieghe della nostra ordinaria quotidianità: bastava chinarsi ed osservare tra gli steli d'erba del primo e più banale giardinetto pubblico per affacciarsi su un mondo che ci illustrava prendendoci per mano, dolcemente, volteggiando come in una ninna nanna.

Chiedo scusa per questa deriva sentimentale, ma il fatto è che Giorgio Celli è un'altra di quelle dolorose ed inaspettate perdite di cui molti hanno probabilmente pianto in tempi recenti.

Un alfiere della natura, che ha speso la vita in una mite e docile battaglia contro l'ignoranza e l'indifferenza, armato della lancia della scienza e della spada della persuasività.

Una persona che, come Einstein, fisico nucleare che si lanciava in osservazioni sulle api e sull'importanza della loro esistenza, anche lui, studioso di insetti e di comportamenti animali, compie incursioni brillanti nel mondo della botanica, stupendo ed ammaliando, e lasciandoti a fine spettacolo attonito e piacevolmente frastornato come un bambino quando si chiude il sipario del teatrino dei burattini.

Rimpiango molto il suo modo di parlare lento e soave, che ti portava via in un viaggio fantastico volando lieve come una piuma, e riportandoti là da dov'eri partito, con una strana sensazione di pareti della stanza divenute nel frattempo troppo strette.

Sulle nuove frontiere della scienza attorno agli alberi, che cercano di spiegare origine e motivi di certa attività elettrica individuata a livello delle radici, Giorgio Celli scrive:

Per cui, e qui sconfino definitivamente nella congettura,

per fare un poco di pessima scienza, ma di buona fantascienza, 

non sarà che ogni cellula della pianta sia anche un cervello periferico,

che si globalizza assieme a tutte le altre?

Quei flussi elettrici nelle radici non potrebbero essere dei segnali

che vanno di cellula in cellula, fino all'organo sensibile,

prendendo forza ad ogni passaggio cellulare?

Io ci vedo la genialità di quel filosofo o scienziato che spinge i suoi pensieri oltre i dogmi della scienza e della fede, contro ogni logica e conoscenza accademica: lanciato nel vuoto ed al buio, la mano protesa in avanti a cercare  un (fortuito?) contatto con la cordella che accende la luce.

Una roba a cui può approdare solo un etologo in vena di studiare il comportamento delle piante come fossero animali o gruppi sociali. L'unico a cui forse potrebbe essere perdonata e l'audacia dell'idea e la sfrontata invasione di campo.

Con più leggerezza d'animo penso sia utile citare anche il caso di J. Cameron, sceneggiatore e regista del film Avatar, che ha sfruttato le recenti scoperte sull'attività biochimica ed elettrica delle piante per esondare liberamente nel pieno del territorio della fantasia. Sul pianeta di sua invenzione, popolato da giganteschi puffi antropomorfi, le piante, e più segnatamente gli alberi, avrebbero costituito mediante l'apparato radicale una sorta di rete neurale ad elevata attività bioelettrica, in grado tra l'altro di interfacciarsi con tutti gli esseri viventi del pianeta.

A mio parere, e cosicchè si possa dire che anch'io parlo di alberi e di cinema come di donne e di calcio, Avatar è un bel film. Uno di quelli che pone garbatamente e piacevolmente a riposo il cervello per un paio d'ore, fornendo tuttavia qualche spunto per riflessioni interessanti.

Anche per bambini, sotto stretta tutela parentale.

Tornando coi piedi per terra, o meglio: sulla Terra, vorrei proseguire con un'altra citazione. La riporto così come si presenta nell'ultima pagina di uno dei pochi testi tradotti in italiano di Alex Shigo: L'arboricoltura moderna, compendio. Il verso è un'estrema sintesi di un discorso attribuito al capo indiano Seattle, il portavoce di un popolo che aveva legato indissolubilmente la propria esistenza all'ambiente in cui viveva, e da questa prossimità e promiscuità traeva la consapevolezza del delicato equilibrio che regola la vita nel mondo.

Questo noi sappiamo.

La terra non appartiene all'uomo;

E' l'uomo che appartiene alla terra.

Questo noi sappiamo.

Tutte le cose sono tra loro collegate come il sangue

unisce i membri di una stessa famiglia.

Tutte le cose sono tra loro collegate.

Qualsiasi cosa accade alla terra

accade anche ai figli della terra.

L'uomo non ha creato il ciclo della vita,

egli è solo una parte di esso.

Qualsiasi cosa egli faccia al ciclo,

la fa a sè stesso.

Purtroppo, e proprio mentre sto scrivendo, cercando la provenienza e l'attendibilità delle fonti, ho scoperto che il discorso del capo Seattle, da cui sarebbe stato tratto tale verso e che per anni è stato assunto quale manifesto dell'ecologismo su scala planetaria, è con ogni probabilità un clamoroso falso storico risalente a tempi piuttosto recenti (anni '70). A tempi in cui cioè i pellerossa racchiudevano due elementi assai importanti in quegli anni: essere il simbolo dei popoli sconfitti da un embrionale imperialismo americano, ed al contempo una facile icona del rinascente mito del buon selvaggio, sensibile e vicino alla natura. Per un approfondimento su tale confutazione può essere utile consultare gli articoli pubblicati su internet dalla dott. . Sandra Busatta,  che lasciano, ahimè, ben pochi dubbi circa il pasticciaccio del discorso di capo Seattle.

Alex Shigo non poteva essere al corrente di questa mistificazione, smascherata in tempi recenti, ed in ogni caso, credo che avesse come scopo il porre l'accento sul fatto che la vita e l'esistenza delle cose animate ed inanimate sta in un cerchio che tutte le comprende.

Voleva essere anche il mio scopo, presentato attraverso parole che, pronunciate da un capo indiano assai distante dalla nostra tecnologia, assumevano un tono di maggiore solennità e vicinanza alla natura di cui vorrei trasmettere l'amore e l'ammirazione che provo.

Ed invece scopro, sempre tramite gli articoli della S. Busatta, che capo Seattle era piuttosto attratto dalle mercanzie, tecnica, fucili ed altre cosucce simili dei bianchi...

Resta comunque il fatto che l'autore di questo falso discorso, tal  Ted Perry, che per altro non ne ha mai nascosto la paternità, ed anzi l'ha sempre reclamata a gran voce non avendo percepito un soldo per gli abusi commerciali che si sono fatti di sue parti o frasi, ha scritto una pagina  di grande poesia in chiave ecologista che ha scosso fino ad oggi le coscienze di milioni di persone nel mondo. Ha portato agli occhi ed alle orecchie di tutti concetti che la scienza, troppo impegnata nei suoi studi, non riesce o non sa divulgare in modo commestibile presso il pubblico, e cioè che  l'urto ad una parte del cerchio della vita produce ripercussioni su tutto il sistema,  anche sui suoi elementi più lontani ed insospettabili.

(Come siamo strani! Se lo dicesse Ted Perry in prima persona, non gli darebbe retta nessuno; se lo dice capo Seattle invece, lo stampiamo a caratteri cubitali su milioni di T-shirt e sulle bandiere verdi di tutto il mondo! Ma il fatto è che, se è innegabile dover riconoscere ai nativi americani una notevole sintonia e conoscenza delle cose della natura, altrettanto innegabile è che questa loro dote non derivava da una scelta, ma da uno stato di fatto, da una mancanza di qualcosa di diverso nei confronti del quale poter compiere una scelta consapevole. Tant'è che, quando se ne è presentata l'occasione, non pochi tra gli indiani e tra le tribù si sono lasciati distogliere dalle lusinghe del mondo dei bianchi, perline colorate, alcool ed armi in testa. Lodare l'indiano per la sua vicinanza al naturale, sarebbe come lodare quel giocatore che, essendosi trovato accidentalmente sulla linea di tiro, abbia deviato in modo fortuito e del tutto casuale il pallone in rete.

Il ricorso all'esotismo è una pecca a cui spesso siamo tentati quando vogliamo validare l'autenticità di un pensiero o di una filosofia di vita, ancor più se questa si rifà a temi ecologisti e di sintonia con la natura. L'indiano d'America, così come trasmesso da certa costante iconografia dello scorso secolo, da John Ford al Tex Willer di Sergio Bonelli, fino a Balla coi Lupi di Kevin Kostner, costituisce un eccellente testimonial delle malefatte dell'uomo nei confronti della natura. Alto e nobile, sguardo fiero, corpo e muscoli torniti dalle intemperie della vita ed una cascata di piume d'aquila giù per il capo, ed un nome che è tutto un programma: Vento nei Capelli.

In realtà, guardando le centinaia di fotografie color seppia che ritraggono capi, notabili e guerrieri indiani, vedo spesso vesti logore e consunte, visi scavati e, questo sì, sguardi arcigni e severi. Niente di molto diverso da ciò che si può vedere osservando le fotografie in bianco e nero che ritraggono gli avi delle nostre campagne e montagne di neppure un secolo fa: sguardi severi, baffoni bianchi ed il miglior vestito che si è riusciti a rimediare per l'evento della fotografia di famiglia davanti alla misera casa in sasso. Erano forse costoro meno vicini alla natura degli indiani? Secondo me no; ma erano anche molto vicini a noi, così tanto da non poter fare a meno di sentirne la puzza di stalla e di fumo di camino, e di ricordarne le pezze al culo di una vita agra e strappata alla terra. Troppo poco aulico, anzi, decisamente imbarazzante. Ricorrere all'esotico consente una facile, e difficilmente contestabile, operazione di maquillage in termini più consoni al prodotto da smerciare. Soprattutto tiene i curiosi lontani dall'altra faccia della medaglia).

Per quanto riguarda noi, ed il nostro piccolo discorso sugli alberi, possiamo immaginare quanti e di che natura siano gli urti che direttamente o indirettamente infliggiamo loro, come singoli individui o come grandi moltitudini raccolte in sconfinate foreste; quali possano essere invece le conseguenze di ritorno per il genere umano, credo sia più difficile prenderne coscienza, perchè prevederebbe il ricorso ad immagini apocalittiche, o a radicali cambiamenti delle nostre abitudini qualora fossimo così saggi da voler rimanere lontani dalla catastrofe.

A lungo mi sono chiesto se, scoperta la truffa ecologista dell'inconsapevole capo Seattle, avesse senso riportare qui una citazione da un discorso mai pronunciato: la risposta è venuta sempre da internet, e mi ha colpito così tanto che desidero riportare per intero quanto ho trovato, ringraziando di tanta franchezza e sensibilità la persona che l'ha scritta.

In realtà, è altamente probabile che questo discorso sia un falso storico. Ma non è questo il punto. Il punto è che dovremmo tutti perdere un minuto della nostra vita, togliere gli occhi da facebook e pensare che in una colata di cemento sopravvivono solo i tondini di ferro. Nessuna tirata ecologista, non posso permettermelo. Però un invito alla coscienza verde, questo sì. Fa sempre un po' male vedere l'ultimo pezzo di natura della città  lasciare spazio ad un'impalcatura. Ma la verità è che dopo due mesi vediamo il palazzo pronto e nemmeno ci ricordiamo più che cosa c'era prima.

Marta 'Briz' Brighenti, Bresciattiva

Per finire credo sia utile accennare anche ad un'altra strategia di difesa e protezione adottata dagli alberi, strategia che fa ricorso, tanto per non smentirsi, alle armi della chimica.

Per parlarne mi piace fare ricorso ad una metafora, un po' colorita forse, ma efficace per spiegare il fenomeno. Prendete un autobus di linea in orario di punta ed in una torrida giornata di giugno: pieno come un uovo. Ad una certa fermata sale un signore grande e grosso, vestito con una canottiera sudata e pantaloni luridi, che si fa largo verso il centro dell'autobus e là si pianta, aggrappato ai corrimani alti, mostrando così abbondanti ciuffi ascellari imperlati di fragranti gocce di sudore. In breve tempo attorno a questo passeggero si sarà creato uno spazio (proporzionato all'affollamento dell'autobus) di cui lui solo beneficerà: il passeggero più comodo.

In botanica, ovviamente con riferimento alle piante e non a corposi e puzzolenti utenti del trasporto pubblico, fenomeni simili sono noti col nome di allelopatia.

Più che di armi di difesa contro aggressori esterni, si tratta di mezzi atti a dissuadere altre specie vegetali, o addirittura i propri simili, dal prendere dimora nei propri paraggi, al fine di garantirsi un adeguato spazio vitale e l'esclusivo accesso alle risorse disponibili. In altre parole, alcuni alberi, ma anche numerose specie arbustive o erbacee, sintetizzano sostanze che, una volta liberate nell'ambiente, rendono il territorio inospitale e poco appetibile per eventuali competitori le cui sementi abbiano avuto la mala sorte di capitare nelle vicinanze di questi avvelenatori.

I modi di rilascio di queste complesse molecole sono assai vari e fantasiosi: possono essere emesse nell'aria dalle foglie, oppure disperse direttamente nel terreno attraverso l'apparato radicale, o ancora possono contaminare il suolo mediante il gocciolamento delle foglie; non di rado abbisognano del supporto inconsapevole degli associati degli alberi (muschi, licheni, funghi, insetti, batteri, ecc.) per ottenere la massima efficacia nella neutralizzazione degli ospiti indesiderati.

Guarda caso, proprio gli associati sono quelli massimamente carenti nei tossici ambienti urbani, da cui parrebbe opportuno osservare che, benchè la competizione tra piante nelle città sia un fenomeno poco frequente, gli sforzi nel difendere il proprio spazio vitale vengano comunque, in molti casi, mortificati in partenza. Non che probabilmente all'albero importi molto, essendo nelle città e nei nostri giardini la mano dell'uomo ad operare una selezione assai efficace su eventuali intrusi; tuttavia si tratta di un altro ottimo esempio di quanto siano carenti le nostre consapevolezze sugli ospiti vegetali che accogliamo nei nostri spazi urbani.

Prendiamo il noce, per esempio: grande avvelenatore ed ospite invero scorbutico ed amante della solitudine. Della sua capacità di crearsi intorno il vuoto si erano già accorti anche in tempi remoti, tanto che questa particolarità veniva attribuita a certe sue inclinazioni diaboliche. Essere un tramite con forze occulte causava l'avvizzimento delle piante vicine, e di certo, sotto le sue fronde, si riunivano streghe e cultori del demonio. La terra del Diavolo è terra sterile.

Addormentarsi all'ombra di un noce dava, inoltre, un sonno irrequieto e popolato di incubi.

Brutta fama! soprattutto visti i tempi, in cui nelle piazze avvampavano sinistri falò...

Ma non è sempre stato così: il nome scientifico del noce è juglans, che deriverebbe dal latino  Jovis glans, cioè ghianda di Giove. In altre parole anticamente si preferiva esaltarne la qualità del frutto, tanto da dedicarlo al primo tra gli dei. E tanto da donare agli sposi una manciata di noci come augurio di prosperità ed ai giovani in età di matrimonio come afrodisiaco e simbolo di fertilità.

Leggendo la storia in senso inverso a come l'ho raccontata io, e cioè nella sua corretta sequenza cronologica, abbiamo dapprima un'epoca antica in cui il noce viene visto come discendenza dalla grande Madre; in seguito nel mondo classico evoca prosperità, abbondanza e luminosità tali da divenire l'albero del padre degli dei dell'Olimpo; infine, con l'avvento del Cristianesimo che con gli dei pagani non trova affinità, Giove diventa il primo dei demoni, ed il suo noce, quello dalla ghianda gioviale, l'albero dei sabba e delle cospirazioni.

Può essere per questi motivi che ancora fino a poco tempo fa la tradizione popolare attribuiva al noce significati contrastanti, ora oscuri, ora benevoli; ma, senza porsi tante domande, traeva comunque da questa pianta tutto ciò di buono che vi poteva attingere: noci, olii per innumerevoli usi, incluso quello alimentare, tannino, coloranti, ed un'infinità di medicamenti e rimedi per la salute e la bellezza.

Molte di queste cose non fanno più parte della nostra conoscenza: io stesso l'ho appreso dai libri, non mi è stato tramandato da insegnamenti domestici, visto che l'ultimo contadino in famiglia (anzi, ortolano, come riferito su un antico documento di identità) è stato il nonno di mio padre. E dunque so che esiste un olio di noce per la cucina ed uno per le lanterne, ma non so certo distinguere l'uno dall'altro,( nè ho occasione di lamentarne la mancanza), e non ne conosco neppure lontanamente i metodi di estrazione. Non parliamo poi delle virtù mediche del noce e del modo di approfittarne mediante raccolta, essiccazione, distillazione, macerazione ed ogni altra lavorazione possibile, eseguibile pure a livello domestico: tutte conoscenze ed alambicchi spazzati via in un sol colpo dalla comoda scatoletta di pillole, portabandiera della moderna industria farmaceutica.

L'ultima esperienza diretta nell'uso del noce, differente dal semplice ammaccare i suoi frutti e mangiarne il gheriglio, era la preparazione del liquore chiamato nocino, cosa che ho visto fare in famiglia quando ero adolescente, forse come ultima riminiscenza fossile di un passato contadino, e che comunque da solo non saprei replicare.

Avete mai provato a togliere il mallo da un certo numero di noci cadute a terra? Sporca di nero le dita in modo quasi indelebile, infilandosi tra le pieghe e le rugosità della pelle, e persistendo per giorni ad onta di brusche e saponi: è un colorante naturale. Qualcuno ricorda come si estrae, come si conserva, come si usa e per quali supporti è adatto?

Pelli, in ambito domestico, non ne conciamo più di sicuro da un pezzo, e dunque perchè occuparsi del tannino? Perchè chiedersi quale pianta e con quale processo produca il tannino migliore per rendere immarcescibile una pelle?

A che pro rivolgersi ad un albero per domandargli ciò di cui non abbisogniamo più? Perchè ricordarsi degli alberi?

Già, e perchè riportare qui, nell'anno dedicato alle strategie di difesa degli alberi, queste nostre mancanze ed ignoranze? Perchè transitare dal noce, prepotente energumeno che si fa largo a gomiti alti tra i suoi simili per preservare i suoi spazi vitali, per approdare qui, su questa spiaggia di cose dimenticate, capolinea dell'antica vicinanza tra uomo e natura?

Tra l'altro occorre dire che se il noce ho menzionato quale simbolo delle nostre conoscenze perdute, non ce n'è uno, e dico uno! albero di ogni specie e ad ogni latitudine che non abbia fornito tale e tanta cornucopia all'uomo da avere, e a buon diritto, uguale o migliore considerazione del noce.

Perchè, dunque, qui e nell'anno delle barriere di compartimentazione e delle tremendissime molecole volatili, dobbiamo parlare del nostro depauperamento culturale?

Perchè l'ultima offesa per gli alberi, e l'unica a cui non hanno barriere da opporre, è il nostro oblio.

Stante che nelle città e nella nostra vita gli alberi devono esserci, cosa è meglio per loro? Essere un costante riferimento per pratiche mistiche e religiose, per la nostra tavola e la nostra cucina, per il nostro cerusico e farmacista, per il falegname e per il tintore; o essere un semplice pezzo di legno piantato nel giardino, disordinato, rompiscatole e sporcaccione?

Dal mal governo e dalla scarsa tolleranza nei confronti dei pochi esemplari piantati nei giardini e nei viali, al totale disinteresse per la sorte di miliardi di alberi ogni anno strappati alle loro foreste, il passo è breve; così breve che è già stato compiuto.

Il nostro oblio è per gli alberi il peggior patogeno, l'unico per il quale la natura non ha previsto una contromisura. E pur volendo ammettere che lo sfruttamento degli alberi non sia certo una pratica che giova loro (castagni, meli e peri, tutti storpi e capitozzati!), occorre anche ammettere che una cultura in cui l'albero è vita, tende per forza di cose a preservare e ad incrementare il proprio patrimonio.

Occorre anche ammettere che comunque, alberi e natura, se ne fregano proprio di quali che siano le nostre cure o il nostro interesse per loro: 350 milioni di anni hanno gli alberi; 4 milioni appena l'uomo, incluso il lungo periodo necessario per rizzarsi sulle zampe e capire le potenzialità del pollice opponibile; e altri 4 milioni di anni non li fa di sicuro, soprattutto avanti di questo passo. Un'inezia: briciole di tempo per mortificare ed avvelenare un pianeta, ed altrettanti pochi scampoli di tempo per cancellare ogni malefatta, anche la più subdola e duratura, fatta di manipolazioni di atomi e di isotopi inestinguibili.

Alla fine sono convinto che alberi ed insetti sopravviveranno, l'uomo no.

Il nostro pianeta può contare su almeno altri 4 miliardi di anni di vita, prima che il sole impazzito lo avvolga in una palla ardente; il genere umano non può avere più di qualche secolo davanti a sè, nella più rosea delle ipotesi, assomigliando sempre più ad una colonia di batteri in vitro che alla fine muore intossicata dai propri scarti e dal soprannumero.

Noi presenti abbiamo poche decine di anni davanti, prima di passare il testimone; cosa siamo disposti a fare? Come intendiamo manifestare il bene che ci vogliamo? Quando capiremo che ecologia è una parola che fa bene all'uomo e non alla natura, che di noi se ne frega, avendo anzi il dubbio che di questa siamo solo un breve e deprecabile errore?

In fondo si tratta solo di barriere: quelle degli alberi, erette contro i patogeni.

E le nostre, che dovremmo abbattere in favore di una comprensione più ampia e meno egoistica della vita, e di un ritorno verso il grembo che ci ha generato e fin qui nutrito.

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